LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA

C.W. Briggs è un investigatore, infallibile quanto fortunato, che si dedica a sventare truffe per conto di una compagnia di assicurazioni. Durante una serata trascorsa in un locale notturno con i suoi colleghi di lavoro, il povero C.W. si lascia ipnotizzare da un corpulento illusionista e da quel momento, al suono della parola “Costantinopoli”, l’ignaro detective sarà costretto dall’ipnotizzatore a commettere dei furti sui quali lui stesso dovrà poi indagare.

Freddo omaggio agli splendidi noir americani degli anni ’40 e ’50, dove il fato e la predestinazione a destini spesso tragici erano elementi insostituibili della narrazione e dove ammalianti dark ladies pronunciavano battute taglienti con gli occhi languidi aperti a fessura. Quello di Woody Allen è un film decorativo molto ben decorato (scenografie sontuose di Santo Loquasto, fotografia raffinatissima di Zhao Fei), ma è anche uno dei film più fiacchi e meno divertenti dell’autore che, negli ultimi anni, sta invero battendo un po’ la fiacca.

Nei film più recenti Woody, per strappare la risata, si appoggiava pesantemente a battute da caserma e ad ammiccamenti sessuali che lasciavano un po’ sbalorditi i suoi fan di vecchia data, ma adesso rinuncia anche alla trivialità e rimane con le armi completamente spuntate, ritrovandosi alle prese con una storiellina bislacca che non è nemmeno ravvivata da situazioni particolarmente divertenti. Forse la politica alleniana, che prevede di dirigere sempre e comunque un film all’anno, comincia a mostrare un po’ la corda e l’ispirazione non è più quella di un tempo. E se si fermasse un attimo per tornare poi con un altro Annie Hall? Personalmente, gliene sarei grato.

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