TEATRO DI GUERRA

di Mario Martone

Normalmente i film italiani sono brutti, spesso orrendi, a volte addirittura rivoltanti. Chi emerge da questa melma è sovente il professionista serio, colto, preparato; ma raramente egli è un vero talento, tant’è che la frase tipica che si sente pronunciare dopo la visione dei film di questi autori è una sconsolante premessa: “per essere un film italiano…”. Tuttavia il vero problema è un altro. Il problema è la mistificazione, la volontà del potere di spacciare questi lavori per opere d’arte, per grande cinema, per cultura. Lo scopo è un tenace e inarrestabile lavoro di livellamento intellettuale verso il basso, ogni giorno sempre più perfezionato perché ormai in grado di potere contare anche sull’entusiastico consenso del pubblico e della critica un tempo di sinistra, oggi più o meno consapevolmente sostenitori dello strapotere dell’ideologia del capitale. Il fatto che Nanni Moretti venga celebrato sulle prime pagine dei maggiori quotidiani nazionali in occasione dell’uscita di un film vuoto e sconcertante come Aprile viene tranquillamente accettato: il Nulla era la normalità, ora anche l’alternativa.

Ho ritenuto necessario questo preambolo per evitare fraintendimenti: sia chiaro che in questo spazio le parole, elogi e critiche, non verranno sprecate.

Martone è un talento, e il suo nuovo film, ricco, sentito, è molto interessante perché racconta il Teatro attraverso un’operazione integralmente e puramente cinematografica. La fotografia sgranata, “povera”, apparentemente poco curata è un elemento stilistico perfettamente funzionale alla vicenda narrata, così come il taglio di molte inquadrature e gli obiettivi usati sottolineano ulteriormente il rifiuto della “bella immagine” fine a stessa, dell’ornamento barocco, nel tentativo – riuscito – di concentrare l’attenzione sui personaggi e sulla loro realtà quotidiana; ciò non significa che le immagini del film siano “brutte”, anzi, alcune sequenze come quella della discoteca e certi momenti delle prove dello spettacolo sono anche soltanto sotto l’aspetto puramente visivo realmente emozionanti. Ma la sostanza è altrove, nella precisione, nel controllo, nell’asciuttezza della sua regia, del montaggio, dei movimenti di macchina.

Non mi hanno convinto invece i momenti nei quali gli attori sono impegnati in una recitazione di tipo naturalistico (per esempio il dialogo sulle scale fra Anna Bonaiuto e Iaia Forte), un elemento stilistico che evidentemente non è nelle corde degli attori e credo nemmeno nelle corde del regista. Questo della recitazione è comunque un problema che va ben aldilà del film di Martone, che peraltro lavora con alcuni fra i migliori attori dell’ultima generazione, perché è un problema che riguarda da vicino tutto il cinema italiano, argomento troppo vasto e delicato per essere affrontato in questa sede.

In merito all’argomento trattato dal film, il Teatro, ho trovato positiva la volontà di sottolineare la mancanza di senso, l’inutilità e lo scollamento dalla vita reale dell’istituzione “teatro stabile”. L’alternativa non può essere però solo quella proposta nel film, in realtà una semplice rilettura della tragedia greca in abiti moderni, con pochi mezzi, pochi soldi, e tanta passione, alla maniera delle avanguardie degli anni sessanta. L’alternativa ha bisogno di qualcosa in più, forse qualcosa che non può prescindere dal cinema. Non sarà anche per questo che alla fine Martone fa dei film?

Boris Maccario

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