Kinsky, il mio nemico più caro
Germania, 1999.
Di Werner Herzog.
Sulla maestosa cordigliera delle Ande, tra le rovine della prodigiosa Macchu Picchu, un giovane regista tedesco cerca nuove “immagini adeguate al tempo in cui viviamo”, “paesaggi non ancora offesi (…) che ti possono far capire te stesso”, capaci di costruire “un’immagine dell’uomo”. Racconta la storia di Aguirre, il conquistatore spagnolo che, vittima del mito di Eldorado, è diventato a sua volta il mito della volontà di potenza votata all’autodistruzione. Durante uno dei giorni di ripresa il paesaggio era totalmente avvolto nella nebbia, rendendo impossibile il lavoro. All’improvviso, le nuvole cominciarono a spostarsi, lasciando libera la visuale, e dal bianco che d’un tratto si dissolse emerse la potente montagna, e il sentiero su cui camminava l’interminabile fila degli attori e delle comparse, proprio come per secoli gli Inca e i popoli loro sottomessi dovevano aver percorso quei territori, sempre a piedi e con i loro lama. Era una di quelle “immagini” nuove, un paesaggio che rivelava anche qualcosa di profondamente umano, che permetteva di accostarsi alla comprensione di “chi siamo veramente come uomini”. Da quel giorno, dice Herzog nel documentario, “ebbi sempre fiducia nel mio destino”.
Dal canto suo, Klaus Kinsky voleva i primi piani, in quanto attore protagonista, voleva che la città di Macchu Picchu fosse ripresa come in una cartolina, “aveva una visione del tutto hollywoodiana” del film che stavano girando; e ciononostante, era l’unico attore di talento sufficientemente folle per imbarcarsi nell’impresa: la storia di un’avventura la cui realizzazione era di per sé una nuova avventura. Herzog non ricreava un mondo di finzione a partire da una storia del passato, ma andava a vivere negli stessi luoghi un’esperienza che risulta, in definitiva, molto simile.
Non è tanto l’aneddotica sul carattere doppiamente eccessivo della coppia Herzog-Kinsky, che pure è il (godibilissimo) filo conduttore di Kinsky, il mio nemico più caro, a conferire al film un fascino e un interesse particolare, quanto il ritorno, ancora una volta, sui luoghi e sulla realizzazione di storie già dotate di un altissimo contenuto di identità vita-cinema, realtà della lavorazione concreta immessa direttamente nella realtà diegetica, film che sono, in un certo senso, già avventure e documentari di se stessi. Di Fitzcarraldo, il lungometraggio che più di tutti diede fama internazionale al regista, sono forse più note le leggende della sua lavorazione (vere o fasulle ormai non importa) che non il film in se stesso; leggende su cui lo stesso Herzog non può fare a meno di tornare ancora: la sua concezione del cinema è materia cinematografica ad un livello straordinario.
In particolare in questi due film, Aguirre e Fitzcarraldo, Herzog racconta il non plus ultra di ogni impresa umana, la natura, nella sua potenza invalicabile, su cui si vanno ad infrangere e dissolvere i sogni grandiosi o i deliri di potenza: le cime delle Ande, la furia del fiume Urubamba in piena, la macerante selva amazzonica; ed in ciò rivela un certo grado di ottimismo, forse legato alla dimensione ancora umanista dell’autore individuale, del cinema come avventura che, pur in equipe, è di singoli individui che inseguono le loro mete artistiche. Ma, avvicinandoci alla comprensione della natura umana, il cinema di Herzog ci fa riconoscere l’immagine della guerra totale contro quella stessa natura che, se nei film appare più forte, nella realtà si dimostra invece drammaticamente fragile, soggiogata dal delirio sistematico della devastazione industriale. La foresta amazzonica muore lentamente, e inesorabilmente, sotto i colpi delle compagnie minerarie, petrolifere, di lavorazione del legno; e con la foresta muoiono i suoi abitanti più antichi, gli indigeni.
Può considerarsi un caso che, se nella trama di Fitzcarraldo gli indigeni finivano per unirsi all’impresa dell’uomo bianco, nella realtà della lavorazione erano pronti a far fuori Klaus Kinsky, terrorizzati dai suoi accessi d’ira incontrollabile e ancor di più dal silenzio di Herzog che non vi poneva un freno, come si racconta nel documentario? O non è forse la chiara intuizione, da parte degli indigeni, di ciò che Kinsky rappresenta, come uomo bianco, con la sua “notevole dose di stupidità” che lo stesso Herzog non può fare a meno di riconoscere?
Mi scuso con Kinsky, il cui talento come attore non sono neanche in grado di discutere, se ho voluto attribuirgli questo ruolo simbolico, che però, forse, non è del tutto arbitrario. Se in questi film Herzog ha riflettuto sull’uomo, proponendo un hic sunt leones (sulle Ande e la Selva del Sudamerica) come limite alla sua follia distruttrice, allora a qualcuno doveva toccare di incarnare la figura dell’uomo occidentale stupidamente impegnato a divorare la sua stessa fonte di vita, la Pacha Mama, la “mamma terra” della lingua quechua. La cosa singolare è che in Kinsky, il mio nemico più caro, Herzog assegna questo ruolo non tanto ai personaggi interpretati, ma, senza indulgenza, all’attore stesso, svelando il suo vero rapporto con i luoghi in cui i film furono girati. Un Kinsky che “non amava e non capiva niente della foresta”, in cui si addentra per una cinquantina di metri soltanto allo scopo di “farsi scattare più di cento fotografie abbracciato ad un albero”, e che, anche nella toccante scena finale del documentario, in cui lo vediamo giocare con una farfalla con una tenerezza irresistibile, siamo alla fine preda di un dubbio: è con la farfalla che gioca e sorride, o con la cinepresa che lo riprende?
Quello che non ci lascia invece dubbi è che anche in questo emerge la grande intelligenza del cineasta Herzog, che nel rendere il doveroso tributo allo straordinario attore, il suo nemico più caro, si pone anni luce dal vuoto omaggio e la piatta celebrazione, per sondare impietosamente chi era “veramente” Kinsky, e ripercorrere e rivivere le ombre e le luci della loro eccezionale avventura non solo cinematografica.
Alessandro Rocco