IL GRANDE LEBOWSki

dei fratelli Cohen

I fratelli Cohen confermano la loro cultura cinematografica. Ma soprattutto nella prima parte del film producono un divertimento impeccabile nello spettatore. Devo dire invece che nella seconda parte emerge in maniera più prepotente il cinismo che contraddistingue i film dei Cohen, mai sofferti o portatori di valori etici, quanto piuttosto fustigatori delle manie americane. Nessuno si salva, neanche il protagonista (straordinario Jeff Bridges), finto eroe sfaccendato e inconcludente.

Insomma un divertimento intelligentemente costruito e raffinato tecnicamente, che nulla ha a che fare con certe banali commedie a cui siamo abituati. Però, insomma, questo non basta. Dove sono i valori? Spero proprio di non passare la mia vita a giocare a bowling. Forse però i Cohen aspirano proprio ad essere degli artigiani di alto livello e da questo punto di vista fanno proprio centro.

Massimo Betti

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Dopo due prove deludenti come “Mr. Hula Hoop” e “Fargo” i Coen tornano con questa nuova pellicola agli alti livelli a cui ci avevano abituati con i loro primi film. Nessun intento morale, nessuna caduta in facili luoghi comuni, nessuna denuncia, ma puro e semplice divertimento, voli di fantasia e strepitose prove di recitazione. Il film, la cui trama è di un’idiozia almeno pari a quella dei personaggi, è un susseguirsi di piccoli episodi narrativi e gag comiche, inframezzate da lunghe sequenze oniriche di straordinario talento visivo. Proprio queste sequenze sembrano essere il vero centro del film, verrebbe da dire la ragione stessa del loro cinema, ma anche il suo limite maggiore.

Grande Jeff Bridges nel ruolo del fricchettone, un tipo di personaggio finalmente colto nella sua vera essenza, grandissimo John Goodman nella parte del reduce, una volta tanto un soldato che ama la guerra, sostanzialmente poco più che macchiette i personaggi di contorno.

In sostanza si ride parecchio, e di gusto. Questo era l’obiettivo, e non si può dire che i Coen non l’abbiano centrato. O meglio, se la vita è una partita a bowling non si può dire che i Coen non abbiano fatto STRIKE.

Boris Maccario

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The big Lebowski

Diretto da Joel ma scritto, come in molti casi, da entrambi i fratelli Coen, Il grande Lebowski è, ancora una volta, un film azzeccato. Azzeccato perché è ironico, intelligente, sapientemente grottesco, interpretato da attori assolutamente fenomenali, scritto e diretto in maniera egregia.

Una storia surreale, ridicola, impossibile, fatta di personaggi che non sono buoni o cattivi, ma sono completamente folli. Folli di una follia che non è tarantiniana – geniale ma ricercata, in qualche modo consapevole – ma semplicemente follia classica. Sono dei pazzi, chi in un modo chi in un altro, ma sempre pazzi. Dal primo all’ultimo. Vivono in un mondo che non esiste, nel loro mondo, e casualmente hanno a che fare l’uno con l’altro, anche se non possono confrontarsi o parlare veramente, perché non riescono a ragionare: l’amicizia – l’unico sentimento che emerge dalla vicenda – non si esprime a parole, ma attraverso un abbraccio che è quasi istintivo. Le parole sono insensate, perché non sono supportate dalla ragione. Ecco perché queste creature nate dalla mente dei fratelli Coen appaiono totalmente vere, sincere, reali.

Nel momento in cui le parole fungono solo da strumento di comicità, ma c’è qualcosa sotto da far emergere, ovviamente bisogna ricorrere ad attori straordinari. E su questo, notoriamente, i Coen non sbagliano mai. Jeff Bridges è straordinario, folle, si muove nei panni dell’ex hippy sempre fuso in maniera geniale. Il suo volto è quello del fallimento, ma non del fallimento triste. La sua faccia è quella di uno che ha visto crollare tutto quello in cui credeva e che per questo appare sconfitto, ma in realtà non lo è perché sa come va il mondo, e lo sa molto meglio di tanti altri. Allo stesso modo il suo amico John Goodman, meraviglioso e ironico veterano. Poi ci sono i soliti “coeniani”: Buscemi e Turturro, entrambi in mini ruoli che sono una vera lezione di recitazione, Julianne Moore, parodia della folle artista femminista. Tutti splendidi, insomma, anche se fra tutti emerge John Goodman, che finalmente ha la possibilità di farsi vedere in un film importante, dopo una lunga serie di interpretazioni grandiose in piccoli film (Barton Fink, Sua maestà viene da Las Vegas).

The big Lebowski è un film a più facce, fatto di parodia, affresco, grottesco, citazioni per veri cultori (si va dal cowboy alla Tom Mix all’autocitazione di Fargo, a Cantando sotto la Pioggia…), ma nasconde sotto tutto questo una storia di persone, di rapporti, una visione del mondo. Proprio come succedeva in Fargo. A volte semplicità e banalità, usate sapientemente, creano idee grandiose.

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