In the mood for love
Il passato è qualcosa che può vedere ma che non può toccare.
Così la voce narrante, extradiegetica, finisce il racconto. E così noi possiamo vedere, nell’ultima sequenza, le immagini nitide e chiare del protagonista che confida il suo segreto al tempio e poi si congeda dallo spettatore. Ritornerò su questa sequenza, ben diversa dalle altre del film. Ma sembra chiaro (seppure in un film così denso di ambiguità, di cose non dette e non mostrate, è difficile parlare di chiarezza) che il passato, il ricordo di un amore perduto, davvero passeggero, come lo sono gli spostamenti da una città all’altra lungo tutto il film (e in contrasto con un’idea di amore sereno e immutabile cui allude il tempio buddista), è ciò che il protagonista ora può scrivere, può far diventare una storia, ma che comunque resta offuscato, indistinto, come un’immagine vista attraverso un vetro appannato o uno specchio rotto. Lo spettatore può conoscere solo qualche frammento di questa storia, e certamente nulla, o quasi, di quella degli altri due coniugi. Ciò che vediamo è offuscato, indistinto e sfuggente come la memoria del protagonista. Wong Kar-Way fa grande uso, in maniera espressiva, di specchi, di vetri appannati, di immagini sfocate, di immagini moltiplicate o riflettenti. Spesso la cinepresa inquadra solo parti del corpo o riprende i personaggi da dietro delle griglie o delle sbarre (così come fa lo scrittore che connota i suoi personaggi all’interno di una griglia narrativa e interpretativa).
Più che di una storia d’amore, si tratta del formarsi di una storia alla quale lo spettatore viene reso partecipe. Così come il signor Chow rende partecipe la signora Chan del romanzo che sta scrivendo; romanzo che nasce e si sviluppa insieme alla loro storia. E’ proprio il lavoro della scrittura che mette in moto la storia del film; per cui la storia (d’amore e di tradimenti, visti e rivisti) assume un valore insignificante, passeggero, e diventa un semplice pretesto, un espediente volutamente teatrale e melodrammatico. In altre parole, Wong Kar-Way conduce una riflessione sul cinema (e quindi agisce a livello metalinguistico) proprio attraverso i classici temi del doppio, della finzione, della recitazione e quindi scegliendo un punto di vista teatrale (è il teatro il luogo del melodramma e della finzione scenica di un attore che deve farsi personaggio). Il film inizia con una sinuosa carrellata “introduttiva” lungo la parete piena di fotografie. All’inizio il protagonista confessa di avere molti libri ma di non riuscire a scriverne uno. Poi, quando si accorge della tresca tra gli altri due coniugi (e dai quali prende subito le distanze – “noi non siamo come loro” – così come, del resto fa la cinepresa che non mostra mai il loro volto) decide di scrivere un romanzo ma su ciò che conosce (le arti marziali). Ma ciò che probabilmente non conosce e che vuole conoscere sono i segreti e i meccanismi dell’innamoramento, del farsi di una storia (le loro abitazioni, come si vede all’inizio del film, non erano già pronte bensì erano in fase di formazione). Chiede quindi a Chan di aiutarlo e così il romanzo prende forma secondo le loro esperienze (quando, ad esempio, il suo amico arriva tutto ubriaco, Chow scrive dell’arrivo del cavaliere ubriaco). Chow è volitivo, vuole prendere in mano la sua vita quando si accorge del fallimento del suo matrimonio (“non perderò tempo nel compatirmi. Bisogna cambiare”) e non vuole farsi trascinare da una storia altrui. Chan invece è al servizio di una storia altrui (la relazione extraconiugale del suo principale: è lei che gli compra i regali e gli fissa gli appuntamenti). Tra parentesi, notare che a livello metalinguistico lui potrebbe essere “le récit”, la sceneggiatura (è giornalista, ha a che fare con la scrittura ed è vestito in modo mesto e grigio come gli altri suoi colleghi) mentre Chan personifica il regista che si mette al servizio di una storia (lei ha a che fare con le sensazioni, le emozioni e i suoi vestiti sono sgargianti o comunque di colori sempre vari).
A questo punto entrano in gioco “le prove”: una relazione che ricalca “quella vera” dei coniugi. Durante le scene delle “prove”, si confondono i veri con i falsi sentimenti; ciò che è finzione diventa una realtà dolorosa. Per l’ultima “prova” (quando lui le chiede di aiutarlo ad accettare la loro separazione) è invece il contrario: è la loro storia che deve essere recitata ma anche qui la finzione è troppo vera per essere sostenuta. Chow compie certo un percorso e riesce a portare a termine il romanzo, ma si rende anche conto che la vita di lui con la sua amante (poiché di vero amore si tratta, anche se all’inizio non pensava di innamorarsi davvero) finisce col confondersi con la vita dei rispettivi coniugi. Egli si accorge di ripercorrere gli stessi sbagli dei coniugi che devono continuamente nascondersi. Per questo, per non compiere gli stessi sbagli, per “non fare come loro”, Chow decide di partire e propone a Chan di venire con lui. Il romanzo è finito, Chow ha capito abbastanza sull’amore, soprattutto che questo comporta delle scelte, seppure dolorose. I due amanti si ripetono che non vogliono essere “come loro”. Ciò sta a significare la mancanza di totale dono di sé da parte degli altri due coniugi (come si vede nella prima parte del film) ed è proprio questo lo sbaglio peggiore che Chow e Chan rischiano di fare. Questo aspetto, credo abbastanza sottile, è rimarcato dalla scelta della cinepresa di inquadrare Chan al telefono con Chow (verso la fine del film) esattamente come per le inquadrature degli altri due coniugi al telefono (nella prima parte del film) e cioè escludendole il volto dal campo visivo. Chan alla fine si trova di fronte a una scelta ma forse non ha il tempo, o il coraggio, di agire. Lei, infatti, si immagina soltanto di dire al telefono a Chow se ha un biglietto in più per Singapore (al telefono invece rimane zitta). Da ciò scaturisce quella forte sensazione di rimpianto, di occasione perduta, che si respira nella sequenza del ritorno di Chan nella vecchia abitazione tre anni dopo.
Dicevo prima della scelta teatrale del regista. Questa deriva anche da una scelta minimalista: il raccontare una storia d’amore di per sé banale (nel senso di già visto) focalizzandosi soltanto sui due protagonisti e lasciando da parte il resto. E’ evidente che i due protagonisti, nella diegesi, non si vedono quasi mai; soprattutto quando ancora si conoscono superficialmente (e cioè per mesi). Essi vedono, per la maggior parte del tempo, i loro rispettivi coniugi, nonché i colleghi e i vicini. Eppure Wong Kar-Way (anche qui gioca con il doppio speculare) preferisce non farci vedere i coniugi (la cinepresa non inquadra mai i loro volti, se non attraverso un vetro appannato) ma solo i protagonisti che si incontrano negli anfratti sempre poco illuminati: corridoi, scale, angoli di strada e mai insieme nei luoghi più deputati all’incontro (quando Chan entra nella sala dove si gioca al tavolo, subito esce Chow). Il regista sottolinea anche la casualità degli incontri dei due così come la loro ripetitività nel tempo (e lo fa anche inserendoci lo stesso brano musicale). Da un punto di vista temporale, il film, dalle prime sequenze, procede continuamente per ellissi ed è difficile capire con precisione quanto tempo passa da un incontro all’altro dei due protagonisti prima che si frequentassero, ma anche dopo. La scelta, quindi, di farci vedere Chow e Chan proprio negli anfratti spaziali e temporali si traduce in una scelta di stile assai riuscita. Anzitutto l’uso del fuori campo: la cinepresa rimane sempre fuori dal luogo dell’azione come se non volesse essere invadente e ne inquadra solo una porzione di spazio, limitando anche i suoi movimenti; spesso il centro dell’azione si trova fuori dal campo dell’inquadratura e noi ne sentiamo solo i rumori e le voci. Inoltre la cinepresa non inquadra mai, a parte l’ultima sequenza, oltre il campo totale così come non usa il primissimo piano proprio per evitare i forti contrasti, per restare sempre discreta. Molto importante poi l’uso del “surcadrage” (inquadratura nell’inquadratura, “picture in picture”) che permette a Wong kar-Way di focalizzare solo una porzione dello spazio (il corridoio della casa oppure il banco del portiere) oppure di moltiplicare la focalizzazione all’interno della stessa inquadratura (come nella scena dell’ufficio quando, cinepresa fissa, Chan si sposta da una parte all’altra e dietro di lei, a sinistra dell’inquadratura, vediamo un collega “incorniciato” da un vetro della parete e a destra dell’inquadratura vediamo un’altra immagine riflessa in uno specchio appeso). Il regista ricorre inoltre a brusche accelerazioni del montaggio o al “ralenti”. Questi procedimenti rendono bene l’idea della frammentarietà del campo visivo (e della precarietà dei sentimenti), della fugacità di piccoli dettagli sfuggenti cosi come permettono al regista di manipolare il tempo, un elemento così importante in questo film dove la Storia viene “trasmessa” (mediata e quindi raddoppiata) attraverso il mezzo televisivo (l’arrivo di De Gaulle) e la storia d’amore viene come “eternata”, collocata in uno spazio senza tempo. Il tempo, quindi, come lo spazio, è qualcosa di frammentario. Non vi sono solo ellissi di tempo ma anche dei flash-forward (l’inquadratura del corridoio con le tende rosse prima che Chow vada nel nuovo appartamento; la scena nella quale Chow cerca in camera sua il portasigarette preso da Chan). Vi sono anche inquadrature che si ripetono due volte: quando Chan si affaccia alla finestra all’inizio e alla fine del film, oppure la luce del neon, ripreso prima lentamente e poi velocemente (notare che la luce bianca del neon viene a coprire completamente per qualche secondo lo schermo; in un’altra scena, in modo speculare, lo schermo sarà invece completamente buio. Evidente il rimando al cinema come mezzo d’espressione).
Wong Kar-Way sceglie di inquadrare sempre i soliti luoghi e per lo più ripresi dalla stessa posizione e angolatura. I movimenti della cinepresa nascono solo con gli spostamenti dei due protagonisti, come spinti da una forza interna che è la stessa che ritroviamo nelle scene musicali. Pensiamo ad esempio alla sequenza della cena al ristorante quando i due prendono coscienza della relazione tra i rispettivi coniugi: al posto del tradizionale campo/controcampo si sostituiscono improvvisamente delle rapidissime carrellate da destra verso sinistra e viceversa.
Abbiamo visto dunque come il minimalismo del film corrisponde al massimo della stilizzazione (la musica poi meriterebbe un discorso a parte). Il film, pur essendo così denso, pieno di emozioni trattenute e controllate, rasenta la rarefazione (come il “ralenti” del fumo, eppure corposo, della sigaretta che si libra nell’aria). E ciò lo riconduce alla sua dimensione puramente filmica: la finzione. Questo è reso ben evidente dal continuo rimando al teatro (come si sa il melodramma è nato in teatro). Pensiamo alle scene delle “prove” (anche queste ripetute sempre due volte) o alla scena nella quale Chow esce dal suo nuovo appartamento verso la fine del film: la cinepresa rimane fissa e le luci si spengono una alla volta, il protagonista guarda lo spettatore e poi esce di scena aprendo la porta, l’inquadratura resta buia con solo due tende (?) alla sinistra e alla destra del campo e la luce entra solo dalla porta quando Chow la apre per uscire (riferimento a “Sentieri Selvaggi”?). Anche l’inquadrare sempre i soliti luoghi risponde a questa esigenza. Così come l’uso delle luci che illuminano la scena, o parti di essa, come se si fosse a teatro. Oppure l’uso, sempre in funzione antinaturalistica, dei colori pastosi oppure caldi da una parte e freddi dall’altra. La pioggia stessa sembra finta. I vestiti di Chan sono sempre di notevole fattura e lei, da primadonna, ne cambia in continuazione. Alcuni si ripetono durante il film, quasi assecondando il suo stato d’animo; come se questi abiti, con i loro colori, fossero la rifrazione visiva dei suoi sentimenti. In particolare il rosso è un colore al quale il regista dà molta importanza. Basti pensare al corridoio con le tende rosse riprese, in modo speculare, sia a destra sia a sinistra (chiaro rimando a Lynch); questo lo vediamo la prima volta (come anticipazione di ciò che dovrà succedere) subito prima che Chan, vestita di rosso, monta sul taxi anch’esso imbottito di rosso. Oppure pensiamo alla coperta rossa che copre Chan in camera di Chow. Impossibile non pensare al Bergman di “Sussurri e “grida” dove il rosso assume una dimensione simbolica, una dimensione tutta interiore e femminile (e come dicevo è Chan il personaggio che ha a che fare con le sensazioni).
Altro elemento importante sono gli oggetti; essi connotano una certa epoca e sono così numerosi da riempire il quadro. Non si può certo parlare di immagini spoglie. In particolare Wong Kar-Way presta attenzione al telefono e all’orologio. Il primo rende l’idea di una comunicazione non autentica, come lo sono gli auguri trasmessi per radio. L’orologio, ripreso anche in primo piano e al centro dell’inquadratura, denota il tempo che passa, quasi senza accorgersene da parte di Chan e di Chow i quali ripetono sempre gli stessi gesti e sono indifferenti al futuro (Chow tiene in mano la moderna pentola speciale senza sapere che farne), almeno fino a quando lui decide di partire.
Questa continua attenzione all’elemento temporale (d’altra parte è il tempo la materia stessa del cinema) ritorna anche quando il regista ricorre al fermo-immagine per “bloccare” i due protagonisti (ma separatamente, come per sottolineare l’impossibilità di una loro unione per sempre) nel corridoio con le tende rosse. Come se essi fossero ormai “eternati” in una dimensione tutta interiore. Una dimensione via via più tumultuosa, seppur trattenuta: le tende rosse che vengono, col tempo, agitate dal vento.
La sequenza finale tronca la contingenza del fragile presente (l’immagine televisiva dell’arrivo di De Gaulle in Cambogia) per collocarsi in uno spazio eterno e immobile. Qui la cinepresa lascia il protagonista che esce di scena (in penombra) e compie gli stessi movimenti del film (le carrellate), le inquadrature dal basso così come si ripropongono il montaggio rapido, il “surcadrage”, le zone d’ombra contro le zone di luce, l’ellisse temporale. Ma a differenza delle altre sequenze del film, quest’ultima è ambientata in uno spazio inedito, grande, arioso e pieno di luce. La cinepresa compie stavolta degli ampi movimenti e riprende, non più oggetti, bensì le rocce immutabili. Per la prima volta vediamo il cielo di giorno così come per la prima volta la cinepresa usa l’inquadratura dall’alto e in campo lungo quando inquadra Chow (che confida il suo segreto) guardato dal monaco buddista. La sua storia è ormai consegnata alle rocce ed egli appare così piccolo di fronte ad una saggezza superiore, serena ed immobile.
Mario Brucker