GRAZIE PER LA CIOCCOLATA

Di C. Chabrol
Con I. Huppert, J. Dutronc, A. Mouglalis, D. Pauly
Francia 2000 – 99’
L’amore ai tempi della collera, attraverso gli occhi dissennati della volontà omicida di una Medea in gara per gli affetti famigliari, in lizza per il premio della vita. Chabrol si diverte a spiare se stesso mentre si trasforma da rabbioso demolitore in assennato terrorista delle cose banali e sacre, la famiglia, la stirpe, lo scambio dei nomi, il male necessario per placare il cuore che chiede cose assolute a dispetto dei confini morali.
Si diverte attraverso una Huppert iconografica, intessendo un gioco frastornante di rimandi edipici, di citazioni autoriali, si diverte ma non diverte, soprattutto non convince e confeziona l’estetica del male in un noir ingenuo e sfilacciato.
E’ difficile in quest’ora e mezza di lucidità del danno rintracciare l’autore; nella fattoria del cinema della famiglia Chabrol, viene voglia di rovistare nella soffitta delle teorie e scomodare un autore implicito.
La disfatta dell’estetica o della morale, il cinema come luogo delle visioni borghesi che si incarnano nel progetto di un possibile controllo della provvidenza; il discorso si fa stantio e la struttura filmica non aiuta.
Ci sono debolezze di sceneggiatura che scompigliano la tensione, ci sono tempi mal calcolati che deridono gli intenti teoretici; perché il figliastro inebetito dall’incapacità di desiderare dubita dell’evidente intento omicida della matrigna, giocato come prima carta e come disvelamento della narrazione, per essere improvvisamente il personaggio più avvertito tra quanti sottostanno ai fili del burattinaio? Perché l’elemento anarchico del doppio, l’allieva pianista che prende su di sé la rivincita della paternità delusa di un artista spossato dai farmaci e dal declino, consapevole da principio di essere l’oggetto dell’odio, persegue l’idiozia di fare da cavia ad un destino noto? Non c’è risposta e la sensazione che rimane è quella della classica trasposizione da un testo che richiede tempi e scene inadatte ad una produzione ridotta ma cerebrale e pretenziosa.
Resta la consolazione del suono pianistico, colonna sonora funebre che s’incarica della funzione di coro nel meccanismo della tragedia, e quella di Anna Mouglalis, giovanissima rivelazione per carattere e intensità interpretativa.

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Merci pour le chocolat di Claude CHABROL, 2000, con Isabelle Huppert, Jaques Dutronc, Anna Mouglalis.

Era uno Claude Chabrol profondamente commosso quello che, nel corso dell’ultimo festival del cinema di Venezia riceveva, in una sala grande, completamente esaurita, una rumorosa e partecipata ovazione del pubblico, forse anche alla carriera. Lo stile semplice ed elegante,, come lui stesso lo ha definito, colpisce ancora una volta nel segno raccontandoci un’altra storia sull’ipocrisia del mondo borghese, che oramai, dopo 50 film girati, può essere considerato il tema/bersaglio prediletto dal regista francese.

In Merci pour le chocolat vengono raccontate due storie, entrambe ambientate nella Losanna alto-borghese, che quasi subito si incontrano trascinando i protagonisti in una spirale vorticosa di odio e violenza fisica e psicologica.

Nella prima storia si celebra un (secondo) matrimonio tra un celebre pianista rimasto vedovo, Andrè Polonsky (Jaques Dutronc) e l’ereditiera di una grande fabbrica di cioccolato, Mika Muller (Isabelle Huppert) e nella seconda una giovane musicista, Jeanne (Anna Mouglais) scopre per caso che, a causa di un errore degli infermieri della clinica dove è nata, potrebbe essere la figlia dello stesso Polonsky. Spinta dalla curiosità e dall’ambizione, la giovane si introduce nella vita del pianista alterandone inconsapevolmente gli equilibri affettivi e familiari e dando inizio insieme alla moglie del pianista a una sfida sottile e terribile, anche se ben mascherata da un gioco tutto femminile fatto di continue allusioni e ostentata indifferenza. Questo è lo spunto che permette al settantenne regista francese di catturare lo spettatore descrivendo, con la consueta cattiveria acida, le frustrazioni più profonde e sepolte dei borghesi di provincia abituati a celare ipocritamente ogni azione dietro il riparo sicuro di una formalità asettica e artificiale.

Perfetta la Huppert nella parte della impeccabile signora della casa che ogni giorno prepara personalmente la cioccolata per il marito e per il figlio da questi avuto dal precedente matrimonio e verso il quale Mika sembra sinceramente concedere premure e attenzioni. Questa ammaliante facciata però, viene progressivamente smascherata in un crescendo narrativo che, attraverso impercettibili segnali, ci svela il vero volto della regina del cioccolato,. Gradualmente, infatti, ci si accorge che qualcosa sta scalfendo le buone maniere di Mika che appare sempre più alterabile dal più insignificante degli incidenti e che si dimostra tanto ben educata quanto priva di ogni sensibilità e gentilezza quando, ad esempio, appella con gelido distacco come rimbambito un vecchio socio del padre.

La Huppert è sublime nel rivelare, con deliziosa discrezione, l’indole più segreta di Mika attraverso il solo uso di sguardi e gesti appena accennati, di lievi variazioni nella tonalità della voce e di sorrisi sempre più falsi e faticosi. E mentre nella sala della villa (nella realtà di proprietà della rock star David Bowie) Andrè Polonsky e la presunta figlia suonano il pianoforte l’uno di fronte all’altra immersi in una sorta di incesto musicale, Mika li osserva concedendo loro un sorriso assente e sarcastico dietro il quale si cela una mente che non smette mai di formulare pensieri malvagi.

Nel finale, quando tutto sarà scoperto, resta indimenticabile l’immagine della Huppert sul divano del salotto di casa, ripiegata su se stessa in posizione quasi fetale che piange senza lacrime e rivolgendosi più a se stessa che al marito, spiega come ella sia Acosì brava a fare del male, e di come sia per lei così facile farsi volere bene Io dico ti amo e tutti mi credono.

Chabrol ci costringe come sempre, con delicatezza e distaccato pessimismo a immergerci nella palude ghiacciata di rapporti sociali caratterizzati solamente da gesti ripetuti meccanicamente, ormai svuotati di ogni senso profondo e utili solamente a nascondere una realtà dove ogni personaggio è portatore di un proprio personale egoismo.

Nel film gli uomini sono assenti, infantili o in estasi contemplativa di se stessi. Nel mondo femminile regna, invece, la malvagità, la perversione e la crudeltà, ma il fascino di Isabelle Huppert è superiore a ogni cosa ed è veramente facile lasciarsi piacevolmente ingannare dal suo personaggio senza per questo avere alcuna velleità di comprenderlo o di classificarlo. Nel film, tratto dal libro Chocolate cobweb, di Charlotte Armstrong, è presente un omaggio esplicito a due maestri del regista nella scena in cui Mika regala al figlioccio due videocassette, La nuit du carrefour, di Renoir e Dietro la porta chiusa, di Fritz Lang.

Per lo spettatore abituato ai continui colpi di scena del cinema di genere U.S.A. (che, attraverso un uso eticamente discutibile del montaggio e del suono, persegue l’unico scopo di provocare un forte spavento) non sarà immediato entrare nel mondo di Chabrol dove il terrore va spesso ricercato nelle sfumature e nei silenzi del film; per chi, invece, fosse alla ricerca di emozioni più profonde e durature, certamente non è possibile non rimanere a lungo ipnotizzato e turbato dal fascino di questa storia casta e perversa allo stesso tempo che, grazie a un meccanismo narrativo ineccepibile, si rivela dispensatrice di forti brividi perfettamente assecondati dallo stato di tensione e inquietudine che pervade l’intera pellicola.

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