BROTHER

Scritto, diretto, montato da Takeshi Kitano

Film americano solo nell’ambientazione (la produzione continua ad essere quasi completamente nelle mani del regista stesso, o per lo meno della sua società), Brother eleva alla massima potenza pregi e difetti dell’autore Kitano: una storia piuttosto banale e in qualche modo “già vista” diventa un racconto cinematografico di straordinaria potenza, ma al tempo stesso risente della presenza di una personalità forte, accentratrice, che a tratti sembra farsi sentire più del dovuto.

Attraverso un linguaggio ben preciso, Brother sviluppa il suo racconto lavorando sullo spazio e sul tempo. L’elemento chiave nella narrazione è l’ellissi: la storia del nostro protagonista, lo yakuza Hiroshi, è costellata di vuoti e di salti, da un luogo ad un altro e da un tempo ad un altro. Ci spostiamo con lui da Los Angeles a Tokyo e da Tokyo a Los Angeles, dal dopo al prima e dal prima di nuovo al dopo, lasciandoci alle spalle tante cose non dette, o meglio non raccontate. L’elemento chiave del linguaggio è invece la continuità: niente indicazioni di data, ora e luogo, niente dissolvenze incrociate, niente episodi con tanto di titoli. In Brother ogni scena si contestualizza da sé, senza alcun tipo di intervento esterno: è lo stacco netto, puro e semplice, a separare non solo le inquadrature, ma anche gli interi blocchi narrativi. Ma gli stacchi separano davvero? È veramente necessario che il racconto venga frammentato? Torniamo per un attimo al discorso sul tempo. Ho parlato fino ad ora di ellissi e di salti, cioè di scelte che tendiamo ad associare ad una narrazione fluida e veloce. Scelte, dunque, che sembrano in completo conflitto con la dilatazione del tempo nelle inquadrature: Kitano si sofferma – o meglio si ferma – sui volti, quasi sempre alla fine di una sequenza e quindi a dialogo terminato, ma utilizza anche movimenti di macchina insoliti e decisamente lenti (basti pensare alla panoramica in dutch – head iniziale). Dunque tempi accorciati nella narrazione, ma dilatati nelle inquadrature. Ed è qui che torniamo a parlare della continuità. Gli stacchi separano davvero? Non mi pare. Se la storia di Brother può essere divisa in capitoli, se le sequenze possono essere analizzate singolarmente, il film è davvero una cosa sola: è come se fossimo di fronte ad un flusso di coscienza, ad un lungo flashback del defunto gangster, rivissuto dallo stesso protagonista – narratore (e con lui dallo spettatore) attraverso i momenti più significativi e le sensazioni più forti, quelle che hanno lasciato la loro impronta indelebile. Nessuna possibilità di episodi, quindi, né di altri elementi imposti dall’esterno. Solo una lunga ed ininterrotta continuità.

C’è una sola eccezione a questa continuità, e si tratta stranamente di una eccezione narrativa più che di linguaggio: la sequenza finale. E non a caso si tratta dell’unico episodio del racconto in cui il protagonista è già morto. L’unico sopravvissuto alla carneficina della mafia italiana, nonché probabilmente l’unico vero amico del gangster Hiroshi, si avvia in macchina verso una fuga che gli sembra senza speranza, fino a che non scopre che la borsa lasciatagli dal capo contiene soldi, e non vestiti. È una sequenza che mi sembra inutile, non soltanto perché spezza, e proprio sul finire, l'”incantesimo” del flusso di coscienza, ma anche – ed è l’errore più grave – perché non contiene nessun elemento utile alla narrazione. Già da prima, infatti, sappiamo con certezza che la borsa contiene del denaro, ed abbiamo appena assistito alla naturale conclusione della vicenda: la morte del nostro protagonista – narratore. Con questa osservazione entro nel merito dei lati negativi di una personalità forte come quella di Kitano: è quasi istintivo associare quest’ultima scena “aggiunta” e ingiustificata al titolo che la segue, la cui dicitura esatta è “Scritto, diretto e montato da Takeshi Kitano”. Scritto, diretto, montato. Sarebbe ingiusto dire che Kitano non sia capace di scrivere, di dirigere, o di montare, ma se è vero che il cinema è un’arte collettiva, la sequenza finale di Brother è l’indizio che ci svela l’assenza di una seconda voce – sia essa quella di un montatore o di un co – sceneggiatore – nel processo creativo.

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