Blackout
di Abel Ferrara
Il bello di un regista come Ferrara -rispetto ad uno come Wenders, ad esempio- è che non si capisce mai come la pensa sulle cose: cosa pensa Ferrara della droga e dell’alcool, del sesso, della follia?
Il regista italo-americano viene trascinato nel vortice di tutto questo senza la distanza del professorino ma da osservatore partecipante: blackout è uno di quei film in cui la macchina rigida del cinema diventa fluida come il delirio.
Questo almeno nei momenti meno dialogati, quando un turbinìo di sovrimpressioni e stacchi quasi confusi tra pellicola e video [ « il video è il futuro » ma non prima di raggiungere una risoluzione accettabile, si spera ] ci fa scivolare nel clima sulfureo tanto congeniale del regista.
Molto meno convincenti gli interpreti [ però sospettiamo del doppiaggio ] che trainati da Claudia Schiffer [ per fortuna i primi piani suoi sono tutti in penombra ] si esibiscono lineamenti espressivi da Fiat Duna [gli occhi della modella tedesca sono presumibilmente i fanali ] e una gestualità stile giocatore di basket.
Tutto ciò non vuol dire che gli attori riescano a rovinare il film: Blackout merita di essere visto e forse rivisto, chiudendo gli occhi quando i protagonisti si mettono a spiegare.
Ferrara non ha bisogno di rendere chiaro il problema, lui è bravo a sguazzarci dentro e stop.
Giuseppe G. Ciponte