Ritratto di signora
Ho sentito da più parti che un bravo regista fa sempre lo stesso film.
Vedendo quest’ultima creazione di J. Campion ci sembra un concetto ancora più chiaro; rispetto non a tutta la sua produzione, ma soprattutto al penultimo “Lezioni di piano”, cadenzato dal pianoforte di Nyman che molto ha pesato nell’armonia dell’insieme. La storia parla delle vicende di una nobildonna dell’ottocento (perché quasi mai del volgo?) che cerca disperatamente di indirizzare la sua vita verso la felicità, ma con scarsi risultati. Ne risulta un ritratto davvero negativo di una persona sprovveduta, incapace di capire i suoi sentimenti e quelli dei suoi affetti più cari.
Si sposa con un uomo avido, abbandona al suo destino l’infermo cugino amato, non aiuta la figliastra acquisita, ostenta una emancipazione che nei fatti non ha (vittima dei doveri della società maschilista in cui vive).
Perché così tante lacrime per sottolineare l’intimo travaglio della protagonista e degli altri personaggi?
E’ proprio necessario che un film d’autore sia sempre rivolto alle sofferenze dell’esistenza e quasi mai alle gioie?
Un attore capace deve misurarsi necessariamente in maniera così plateale con un ruolo travagliato ed instabile?
Un eccessivo ricorso al primo piano e al lento movimento di camera nel campo e controcampo dei dialoghi rende le immagini meno incisive, non lesinando artifizi che dovrebbero sottolineare i momenti più determinanti del film.