MICHAEL
Americano. Molto americano. Però intelligente. Certo non bisogna aspettarsi gli angeli di Wenders o qualche dissertazione filosofica da cinema europeo, ma qualcosa di stimolante c’è. Dietro a una commediola come tante altre mi è parso di vedere qualcosa di più profondo, di più critico e di più piacevole. Innanzitutto l’angelo John Travolta, che sottolinea la differenza tra gli uomini e le creature divine. Sì, perché se gli americani degli anni Novanta sognano di diventare creature aeree, non fumano, non si drogano (probabilmente non fanno nemmeno più sesso), mangiano solo orripilanti alghe dietetiche, ecco che nell’arcangelo Michele le ali diventano totalmente secondarie. I veri aspetti che lo distinguono dagli uomini “normali” sono la sigaretta sempre accesa, la pancia indiscutibilmente da alcoolista, la passione per i cibi più schifosi e pesanti e la necessità quasi paranoica di zucchero (“Non troverai mai nulla di abbastanza dolce”). Anche gli altri personaggi, a loro modo, sono totalmente distaccati dai canoni: non sono i puri cattivi tarantiniani, ma non sono nemmeno i classici giovialoni bravi e simpatici che nella vita non hanno mai fatto nulla di male. Fondamentalmente William Hurt ed Andie MacDowell recitano la parte di due persone. E la cosa non mi sembra tanto normale, di questi tempi. L’idea di capolavoro è decisamente lontana da questa commedia che per certi versi fa acqua da tutte le parti e che è ancora troppo americana per poter essere apprezzata dall’ormai esigentissimo pubblico europeo. Tuttavia vedendo film come questo mi piace pensare che qualche pregiudizio cinematografico stia lentamente cadendo e che qualcuno incominci a capire che si può imparare dagli altri senza copiare. Cosa che già diceva Orson Welles. E non mi sembra poco.