Honolulu baby

di Maurizio Nichetti

Se questo fosse un articolo e avesse un titolo, probabilmente si chiamerebbe Un’anteprima fuori dell’ordinario. O qualcosa del genere. Quella del film di Nichetti, per una volta, non è stata un’anteprima riservata alla stampa, bensì ai “tecnici”, parola meravigliosa e allo stesso tempo inquietante, che solitamente definisce un ampio spettro di personalità che vanno dal principe degli effetti speciali alla cugina del produttore con un pomeriggio libero.

Eppure in certi casi rari, come questo, la parola “tecnici” assume un significato linguisticamente più complesso ma dal significato precisissimo, un po’ come gli ideogrammi giapponesi che con un solo disegno riescono ad esprimere una frase complicatissima. Dunque per l’anteprima di Honolulu baby la miglior traduzione del termine “tecnici” potrebbe essere qualcosa come “oggi non dobbiamo vendere il film a nessuno, siamo tra gente che bene o male di cinema dovrebbe capirci abbastanza quindi rilassiamoci, lasciamo da parte le scemenze retoriche e parliamo un po’ del film e soprattutto del nostro mestiere”. Meraviglioso. Quello che inizialmente sembrava dover essere l’ennesima presentazione con frasi di rito e domande al limite dell’umana comprensione si trasforma in un appuntamento importante, in un confronto con l’esperienza di un regista che, appoggiato da produttori illuminati e da un gruppo di “tecnici” – che tecnici lo sono sul serio – ha deciso di trasformarsi in una sorta di pioniere, confrontandosi direttamente con le nuove tecnologie di cui tutti fanno un gran parlare ma che nessuno ha ancora deciso di provare seriamente.

Dunque, in breve, molto di quello che solo poco tempo fa ci sembrava strabiliante in Titanic è finito in un piccolo film che non vuole essere un kolossal, e per di più, cosa inaudita, in un film italiano. Lo stesso Nichetti ha spiegato che alcune scelte, come la sequenza dei titoli di testa, sono state dettate da un desiderio di sperimentare piuttosto che da una reale esigenza del racconto, eppure all’interno del film ci sono molti momenti in cui le immagini generate da un computer sono fondamentali per lo svolgimento della storia ed hanno evidentemente consentito di girare scene complicatissime con un ridotto dispendio di mezzi e di denaro. Questo per dire che, come ha sottolineato il regista, l’uso di tecnologie avanzate di questo genere non è un semplice trastullo per montatori degenerati, ma uno strumento fondamentale al servizio del racconto, e quindi in primo luogo dello sceneggiatore che può permettersi di immaginare cose prima inimmaginabili per i budget medi italiani.

Le “magie” consentite da questi macchinari sono praticamente illimitate: si va dalla variazione totale del colore e delle fonti di luce, all’allargamento di un’immagine originale 1,85 a 2,35 (come se fosse girata con obiettivi anamorfici, anche se così non è), alla moltiplicazione delle comparse, fino alla creazione da zero di animazioni e di elementi dell’immagine che ai nostri occhi appaiono completamente reali (nel film in questione ci sono ad esempio un lungo acquedotto e gli uccelli, inseriti completamente in postproduzione e quindi mai girati sul set). Ma di magie in realtà non si tratta. Abbiamo semplicemente a che fare con l’evoluzione della tecnologia che abbiamo sempre utilizzato. Tutto si sta orientando verso il computer, ed in particolare al cinema dove l’esigenza di poter manipolare (e non intendo per forza in senso negativo) l’immagine è sempre stata presente fin dalle origini. Dunque, in un momento complesso come quello che il cinema sta vivendo – un momento di reale trasformazione che ormai quasi nessuno ha più il coraggio di negare – è importante, per non rimanere indietro, cercare il più possibile di sperimentare, di tenersi aggiornati, di cercare di capire che tutte queste novità non hanno solo a che fare con Hollywood e con i kolossal da miliardi, ma possono realmente diventare uno strumento di racconto utile a qualsiasi livello produttivo di cinema.

Per questo credo sia doveroso rendere un omaggio a Nichetti, che al di là della sua visione personale, delle sue tematiche, dei suoi “film”, è forse insieme a Salvatores il regista italiano che più ha cercato in questi anni di confrontarsi con la tecnologia digitale in maniera costruttiva, vedendola come un nuovo strumento da scoprire e da conoscere e non, ottusamente, come un nemico da combattere con tutte le forze.

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