Bastardos en el paraíso
Interamente in Europa si svolge la storia raccontata dal cileno Luis Vera, Bastardos en el paraíso, premio alla miglior regia. Il regista ha vissuto e lavorato a lungo in Svezia, nel suo esilio dal Cile di Pinochet, dopo avere trascorso alcuni anni in Perù e Romania. La tecnica di ripresa, messa in scena e recitazione, è molto simile al Dogma (Lars Von Trier), anche per l’uso del digitale: camera a spalla, mossa, effetto verità documentaria, dialoghi spesso concitati, situazioni collettive riprese “dal vero”. Un cinema, come afferma l’autore, che “si libera dalla spettacolarità degli effetti speciali” per proporre riflessioni ed emozioni profonde, che rielabora e aggiorna, secondo chi scrive, la poetica del realismo. Produzione (Latinordisk Films), attori, dialoghi sono per la gran parte svedesi e l’ambientazione è Stoccolma, principalmente i quartieri periferici dove risiedono gli immigrati, tra cui le “teste nere”, i sudamericani, spesso rifugiati politici. Un mondo che il regista conosce sicuramente bene.
La storia narra la parabola di Manuel, figlio di rifugiati cileni, che vive la schizofrenia di una doppia identità, costruita sull’eterna promessa del “ritorno” verso una patria che non ha mai realmente conosciuto. Al contempo, mostra l’esistenza di sottili meccanismi di esclusione nei confronti degli immigrati, che se migliorano la loro situazione materiale rispetto al paese di provenienza, vivono un’emarginazione da cittadini di seconda categoria. In questa situazione, l’unica via che Manuel riesce ad individuare per farsi rispettare nella società che lo discrimina è quella criminale, l’illusione e il miraggio di denaro e potere facile. I valori del padre, l’onestà, la dignità, la lotta, non hanno alcun senso per il giovane, in una società in cui anche i giovani svedesi vivono ormai solo per i soldi ed il successo.
La narrazione si struttura in due tempi intorno ad un fatto violento tratto dalla cronaca nera del 1994: una rissa con arma da fuoco all’esterno di un locale notturno nel quale non era stato consentito l’ingresso a dei giovani immigrati. La stampa locale diede risalto alla notizia, come sintomo del “problema immigrazione”, delle difficoltà del modello scandinavo di accoglienza e benessere generalizzato, e motivo di una crescente xenofobia. Per Vera l’episodio costituisce il momento culminante del percorso di Manuel e dei suoi amici, che dalle bravate tipiche dell’adolescenza slittano progressivamente verso la delinquenza vera e propria. Al delitto segue il procedimento giudiziario con cui i giovani sono condannati a diversi anni di galera, ma che rappresenta anche l’occasione per un esplicito contro-processo alla società scandinava, rea di non avere mai offerto reali occasioni di integrazione, colpevole di un’ipocrita accoglienza parziale degli immigrati, accuse realizzate in aula dall’ormai anziano ex professore di liceo dei ragazzi.
In questo senso il film è in grado di mettere a fuoco problematiche inerenti ai due mondi messi in contatto. Se infatti in Cile è stato visto principalmente come denuncia della xenofobia europea e riflessione sulla problematica identità degli esiliati, per gli europei può essere uno specchio nel quale approfondire il tema del vuoto di valori, del preoccupante affermarsi di una cultura individualista e violentemente consumista, frutto della fine delle utopie di cambiamento. Emblematica è infatti la scelta finale di una delle protagoniste, Lena, che decide di riprendere l’eredità del vecchio professore dedicandosi ai bambini, per proporre almeno la speranza in un futuro diverso.