GOSTANZA DA LIBBIANO
Nel 1594 Gostanza da Libbiano, una contadina toscana di circa sessant’anni, occasionale guaritrice di povera gente, viene processata dalle autorità ecclesiastiche perché sospettata di stregoneria. Per evitare la ferocia delle torture confessa di essersi macchiata di ogni nefandezza ma paradossalmente, proprio quando la donna cede davanti alle accuse dei suoi inquisitori, la sua versione dei fatti non viene ritenuta plausibile e così Gostanza viene rimessa in libertà seppure bandita dal suo paese.
Rigorosamente tratto dagli atti del processo svoltosi realmente alla fine del XVI secolo contro Monna Gostanza da Libbiano, il quarto lungometraggio di Benvenuti appare anche come il suo lavoro più bello ed equilibrato. Il discorso, attualissimo, contro l’intolleranza di qualsiasi genere e per la piena dignità della donna viene svolto senza alcuna forzatura, ed è messo in immagini con uno stile rigoroso e raffinato, senza cadute di tensione e senza quegli estetismi inutili ed irritanti che minavano parzialmente la riuscita del suo precedente lavoro, Tiburzi. Benvenuti pare essere rimasto uno dei pochi registi in circolazione che continui ostinatamente a chiedersi quale sia il posto più giusto (anche moralmente) dove piazzare la macchina da presa, e allora l’accostamento con il capolavoro di Dreyer, Dies Irae, non deve apparire troppo irriverente, poiché viene giustificato dalla medesima tensione etica che trapela dalle due opere. L’interpretazione di Lucia Poli, che ha dovuto vincere lo scetticismo del regista nei suoi confronti per ottenere la parte, è di quelle che rimangono impresse nella memoria dello spettatore, di quelle che, uscito dal cinema, ti fanno pensare che la vera Gostanza da Libbiano non potesse essere diversa da come l’abbiamo appena vista sullo schermo.