SIB

di Samira Makhmalbaf, Iran, 1988, 35 mm.

con Massoumeh Naderi, Zahra Naderi, Ghorbanali Naderi, Azizeh Mohamadi

La figlia diciottenne di Mohsen Makhmalbaf esordisce alla regia con un film che non può non nascondere la presenza del padre. Ovvio sponsor, Mohsen ha promosso quest’opera già in sessanta festival mondiali. Sib è stato apprezzato a Cannes e ha ottenuto una menzione anche all’ultimo festival di Salonicco.

Giudicare questa pellicola come risultato degli sforzi della giovane Samira è impossibile; viene spontaneo domandarsi quanto ci sia di uno dei maggiori cineasti del cinema iraniano, sia nell’ organizzazione del discorso che nel trattamento della storia. La vicenda delle due ragazzine segregate in casa dai genitori per undici anni ( “Le mie figlie sono come dei fiori, non devono essere esposte al sole, altrimenti presto appassirebbero…” dice il padre) sembra la più adatta per la giovane esordiente. Sib è una descrizione del mondo femminile iraniano, partendo da un assunto reale; cerca di far riflettere sulla condizione delle donne in un momento cruciale nell’evoluzione di tutto il paese. Tra passato e presente, la madre delle due ragazzine preocupata innanzi tutto di mettere il suo chador, l’assistente sociale che vuole liberare le due ragazzine e che ottiene, dopo le prime diffidenze, l’aiuto di tutto il quartiere, il film narra la liberazione delle due undicenni e la loro scoperta del mondo, nel primo ed essenziale confronto con i loro coetanei. Saranno proprio le due ragazzine a liberare, a loro volta, i loro genitori, segregati anche loro nell’ultimo tentativo di conservazione dei vecchi valori (alla fine del film, il padre esce con le figlie per strada, la madre, cieca è costretta a cercarli e ad affrontare, così, il mondo).

Sib è un film che ha sguardo neutro, si affida ai dialoghi per la presentazione e la nostra riflessione sui personaggi. Tuttavia non presenta spiccati elementi di originalità rispetto all’opera di Mohsen Makhmalbaf, nei confronti della quale è troppo debitore (in certi tagli dell’inquadratura, nell’utilizzo di metafore, lo specchio e il bicchiere, che ormai sono diventate d’obbligo nel cinema iraniano). Peggiora la situazione, poi, la presenza di un moralismo (la storia deve insegnare) che i film di Mohsen, di uno sguardo più libero e intriso di favola e surrealismo, non hanno.

Cosimo Santoro

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