Il mestiere delle armi
Nel 1526 i Lanzichenecchi agli ordini di Carlo V giungono in Italia con il bellicoso intento di uccidere il Papa, Clemente VII. A capo delle truppe pontificie si trova il valoroso condottiero Giovanni dalle Bande Nere, nipote del pontefice, il quale dovrà guardarsi, oltre che dai suoi nemici, anche dal tradimento dei Signori di Mantova e di Ferrara. Morirà il 30 novembre di quello stesso anno dopo lunghi giorni di agonia, colpito ad una gamba da un’arma da fuoco, e dunque vittima simbolica di un’ inarrestabile evoluzione nelle tecniche di combattimento.
A quasi venticinque anni di distanza da L’albero degli zoccoli, ultima Palma d’oro a Cannes per un film italiano, Olmi ci riprova con questa sua ultima opera selezionata per il concorso. L’intento era di narrare un’epoca di grandi cambiamenti attraverso il punto di vista privilegiato di colui che sarà la vittima sacrificale immolata proprio sull’altare di questo progresso, grazie al quale i gloriosi duelli all’arma bianca stavano per essere definitivamente superati dall’avvento delle prime armi da fuoco. Ma se l’aspetto figurativo del film appare fin troppo impeccabile e ogni inquadratura mostra una cura certosina nell’organizzazione degli spazi, sono proprio i personaggi a difettare di interesse e a peccare di umanità. Giovanni, emblema dell’eroe nobile, del giovane amante impetuoso, del guerriero indefesso, pare sullo schermo solo un invasato bidimensionale, che urla, strepita e si contorce ma rimane distante dallo spettatore. In questo modo anche la (neanche troppo) larvata critica al progresso e il rimpianto per un passato edenico (forse mai esistito), rimangono elementi affidati ai dialoghi (“ormai la politica è più importante degli eserciti”) e non espressi dalle immagini. E poi se un pubblico cinefilo come quello torinese si chiede nervosamente e ad alta voce quand’è che il protagonista si deciderà a tirare le cuoia, allora non è davvero un buon segno.