Eszak, Észak

di Csaba Bollók, Ungheria, 1998, 35 mm

con Laura Ruttakay, Zsolt Trill, Barnabás Marton, Nelli Szúcs

Concorso lungometraggi

“Adesso che non sogno sto molto meglio”. Con queste parole della protagonista, Juli, il film si apre sul gelo dell’inverno ungherese, attraversato dalla protagonista che percorre la tundra ghiacciata in bicicletta.

L’obbiettivo della ragazza sembra inizialmente essere proprio il suo sogno, arrivare “più a nord del nord”, metro dopo metro, pedalando. I personaggi incontrati nel viaggio non lasciano segni, non riescono a scalfire il suo disegno: andare al di la di se stessa. La donna che le indica la strada, la coppia che si è fermata a guardare il paesaggio, sembrano solo episodi staccati dalla realtà di Juli; persone che non stanno affatto cercando di arrivare oltre. Quando poi viene rapita come ostaggio… l’incapacità dei ladri, la situazione ridicola della mancata violenza dovuta al fatto che non riescono a mettersi d’accordo su “chi è il primo” rendono chiaro il messaggio forse non originalissimo. Juli fugge – senza troppe difficoltà – a dimostrazione che agli altri non è possibile infrangere la sua volontà. La sua forza la porterà dove vuole arrivare.

Ma Juli torna indietro, verso sud, verso casa. E lo scenario cambia.

La ragazza cercava, pedalando, di ricaricare la batteria per il trenino del fratello, che le è stata rubata. Durante il tragitto del ritorno la recupera facilmente, sempre come se gli atti degli altri non influissero su di lei. L’oggetto, la batteria, rappresenta la sua responsabilità, così come il dovere di tornare a casa prima di sera. Un dovere che non è vissuto come imposizione, ma piuttosto come naturale ordine delle cose, come esigenza primaria. La protagonista, ricordiamocelo adesso, non sogna. Realizza il tragitto che la spinge oltre se stessa, e lo fa nella sua realtà.

Esausta infine incontra Misi, il motociclista che per adesso della moto ha solo il casco, e si fa riaccompagnare a casa. Non vi sono comunque dubbi che, se Misi non fosse apparso sulla strada del ritorno, lei c’è l’avrebbe fatta. Lui rappresenta perciò la sicurezza della famiglia, dell’amicizia, del punto fermo. O quanto meno del punto che si muove solamente quando va a cercare lei, solo inseguendo l’idea di lei, e non perché una sua identità propria glielo richiede.

L’eterno oscillare della vita (da nord a sud) deve quindi avere un perno. Il perno su cui oscilla il pendolo sono in questo caso i rapporti sicuri, quelli che si danno per scontati, e dei quali non si può fare a meno.

Il film si conclude con dei gesti di fratellanza che potrebbero lasciar intravedere un nascente amore, dal quale fortunatamente il regista ci risparmia. Un finale così scontato avrebbe sicuramente rovinato la sospensione in cui è immersa l’idea, sospesa nel ghiaccio delle lande deserte, sospesa come un’altalena. Un’altalena che spingiamo continuamente avanti ed indietro, il nostro perno che ci permette di oscillare da nord a sud. Un’altalena che cerchiamo in ogni momento di far arrivare sempre più in alto. Più a nord del nord. Più a sud del sud.

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